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L’arte di vincere: la recensione

Costruire una squadra da titolo con quattro soldi. Questo è l’obiettivo del general manager degli Oakland Athletics, Billy Beane (Brad Pitt), ma la situazione si rivela più complicata del previsto.

Durante un viaggio a Cleveland, Beane incontra Peter Brand (Jonah Hill), un giovane laureato in economia a Yale con idee quanto meno stravaganti sulla scelta e valutazione dei giocatori, applicando la scienza e la statistica allo sport. Facendo convivere quindi due mondi apparentemente diversissimi e inconciliabili tra loro.

Diretto da Bennet Miller e scritto da Aaron Sorkin e Steven Zaillian, “L’arte di vincere”, malgrado le apparenze, non è un film sul baseball (anzi le scene sportive sono praticamente assenti per quasi due ore), ma un film in cui lo sport americano per eccellenza si fa metafora e strumento per raccontare una storia profondamente a tinte a stelle e strisce. Si parla, infatti, della necessità di cogliere le seconde opportunità che la vita talvolta può concedere.

La seconda occasione è uno dei miti fondanti dell’american dream e una seconda occasione è quella che cerca in tutti i modi Billy Beane, ex promessa del baseball catapultata nella Major League, la cui carriera da professionista non ha rispettato le altissime aspettative. Una volta ritiratosi dall’attività agonistica, Beane prova a reinventarsi general manager e cerca di cogliere quell’opportunità di essere un vincente che gli è sfuggita in precedenza.

La necessità e il desiderio di rimettersi in gioco, la volontà di non arrendersi di fronte alle difficoltà muovono il personaggio interpretato da Brad Pitt: un personaggio profondamente americano in quanto animato dalla convinzione che la perseveranza, il coraggio, la determinazione e il talento siano destinati prima o poi ad essere riconosciuti e ripagati.

Brad Pitt in L'arte di vincere

La storia de “L’arte di vincere” è quella di un riscatto voluto, inseguito con disperata forza e con la consapevolezza di mettere in discussione prima di tutto sé stessi. Ed ecco allora che il baseball diventa perfetta metafora della sfida che Billy decide di affrontare: così come i suoi giocatori sul campo, il general manager lotta per ottenere una vittoria personale, ripensando ai propri errori, tornando sui propri passi e modificando le sue prospettive di azione.

Determinante in questo senso è l’incontro con Peter Brand, giovane nerd alla prima esperienza lavorativa che reinventa il modo classico di costruzione di una squadra, sostenendo quanto sia necessario acquistare vittorie (determinate dai freddi numeri e dalle statistiche) piuttosto che acquistare giocatori. Anche questo personaggio (interpretato magnificamente da Jonah Hill) diventa incarnazione metaforica di una certa società statunitense, vale a dire l’America figlia del marketing e che attraverso i numeri, la scienza e il rigore economico riesce a regolamentare anche il talento e la creatività, cogliendo il meglio da ogni situazione e riuscendo a valorizzarlo.

Tutto ciò trova il suo corrispettivo filmico grazie all’abile e sapiente scrittura di un Aaron Sorkin che costruisce un impianto narrativo per molti versi simile a quello di “The Social Network”, anche nella scelta di mettere in secondo piano quello che è il tema principale apparente (lì la nascita di Facebook, qui il baseball) per parlare di tutt’altro.

Jonah Hill in L'arte di vincere

Grazie all’apporto di Zaillian e a una messa in scena classica e professionale di Miller refrattaria ad ogni formalismo estemporaneo, Sorkin trasforma l’esperienza individuale di Billy Beane in una storia in cui è universalmente possibile riconoscersi, scandagliando l’animo umano e riuscendo ad emozionare per come viene messa in luce la complessità sentimentale di Billy, antieroe romantico con cui è impossibile non entrare in empatia.

Nonostante il suo impegno, Billy non vede ripagati i propri sforzi, o quanto meno non in maniera diretta: con le sue idee e la sua caparbietà guida un cambiamento di cui non potrà cogliere i frutti, il che fa di lui un vincitore sofferente e perdente secondo i canoni tradizionali. Un loser apparente, destinato ad essere canzonato in un mondo che ha avversione verso qualsiasi tipo di sconfitta.

E a sorprendere in positivo è un Brad Pitt capace di trasmettere tutta l’umanità dolente di Billy Bane, uomo segnato dalla vita ma non per questo disposto ad arrendersi, deciso a esternare il meno possibile la propria emotività ma incapace di frenarsi a comando poiché umano.

Indimenticabili sono i duetti tra Pitt e Hill, così come i confronti tra Billy e sua figlia, un rapporto tracciato in modo essenziale ma diretto ed efficace che regala alcuni dei momenti più alti di un film tanto ricco e affascinante che conquista e scalda il cuore.

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